Wednesday 16 December 2015

Il metodo sperimentale: quando la scienza è scienza

In una società caratterizzata dal sovraccarico cognitivo immagino sia giusto chiedersi (e chiedere) che cosa sia la scienza, cosa distingua le informazioni scientifiche da tutto quello che invece non è altro che pura opinione, magari autorevole, ma senza il sigillo dell’oggettività.

Per quanto affascinante possa sembrare l’idea del ricercatore che con un’improvviso colpo di genio elabora una stupefacente teoria, dovrebbe essere chiaro che l’intuizione è solo un possibile punto di partenza, che non necessariamente prelude al progresso scientifico, per quanto geniale ed innovativa possa essere. In generale, almeno in ambito biologico, nessuna teoria acquisisce automaticamente valenza scientifica, ma rimane solo nell’ambito delle opinioni, indipendentemente dal fatto che nasca da un colpo di genio, oppure grazie ad un paziente e meticoloso lavoro di analisi intellettuale, che magari si concretizza in un modello matematico altamente elegante e complesso.

Da un punto di vista puramente intuitivo, è ovvio aspettarsi che una prova scientifica debba uscire dall’ambito delle opinioni legate a divergenze di cultura, percezione e/o credenze individuali, per divenire, al contrario, oggettiva e universalmente valida, distinguendosi quindi da altre verità di natura metafisica, religiosa o pseudoscientifica. Che cosa è che permette alla scienza di divenire tale?

A questo proposito, riporto alcuni aforismi significativi:

  1. Proof is a justified true belief (Platone, Dialoghi)
  2. The interest I have in believing a thing is not a proof of the existence of that thing (Voltaire)
  3. A witty saying proves nothing (Voltaire)

Cosa è quindi una prova scientifica?

La base di tutta la scienza risiede nel cosiddetto ‘metodo scientifico’, che si fa comunemente risalire a Galileo Galilei (1564–1642) e che è riassunto nella figura seguente.

Il metodo scientifico Galileiano
Il metodo scientifico Galileiano

Senza andare troppo in profondità, è importante notare due aspetti:

  1. il ruolo fondamentale dell’esperimento scientifico, che produce dati a supporto di ipotesi pre-esistenti;
  2. lo sviluppo di teorie basate sui dati, che rimangono valide fino a che non si raccolgono altri dati che le confutano, facendo nascere nuove ipotesi che possono portare allo sviluppo di nuove teorie, più affidabili o più semplici.

Insomma, l’ingrediente fondamentale di una prova scientifica è che è supportata da un insieme dei dati sperimentali; di fatto, non esiste scienza senza dati! Resta famoso l’aforisma “In God we trust, all the others bring data”, attribuito all’ingegnere e statistico americano W. Edwards Deming (1999–1923), anche se pare che egli in realtà non l’abbia mai pronunciato.

I dati non sono tutti uguali!

Alla base della raccolta di dati sperimentali vi è un processo di misurazione, attraverso la quale il fenomeno oggetto di studio viene caratterizzato con appositi strumenti scientifici, più o meno complessi. Il problema è che nessuna misura può essere considerata precisa in senso assoluto, cioè perfettamente coincidente col valore reale della grandezza misurata, che è destinato a rimanere un’entità incognita e indeterminabile.

In particolare, in ogni esperimento scientifico esiste un potenziale elemento di confusione che gli scienziati conoscono con il termine di errore sperimentale, con la cui presenza è necessario confrontarsi sempre e comunque.

L’errore sperimentale

Nel misurare una determinata grandezza fisica, indipendentemente dal metodo scelto per la misura, possiamo sempre commettere due tipi di errore: sistematico ed accidentale (casuale).

L’errore sistematico è provocato da difetti intrinseci dello strumento o incapacità peculiari dell’operatore e tende a ripetersi costantemente in misure successive. Un esempio tipico è quello di una bilancia non tarata, che tende ad aggiungere 20 grammi ad ogni misura che effettuiamo. Per queste sue peculiarità, l’errore sistematico non è quantificabile e deve essere contenuto al minimo livello possibile tramite la perfetta taratura degli strumenti e l’adozione di metodi di misura rigidamente standardizzati e accettati dalla comunità scientifica mondiale.

L’errore accidentale (o casuale) è invece legato a fattori variabili nel tempo e nello spazio, quali:

  1. malfunzionamenti accidentali dello strumento. Si pensi ad esempio al rumore elettrico di uno strumento, che fa fluttuare i risultati delle misure effettuate;
  2. imprecisioni o disattenzioni casuali dell’operatore. Si pensi ad esempio ad un banale errore di lettura dello strumento, che può capitare soprattutto ad un operatore che esegua moltissime misure manuali con procedure di routine;
  3. irregolarità dell’oggetto da misurare} unite ad una precisione relativamente elevata dello strumento di misura. Si pensi alla misurazione del diametro di un melone con un calibro: è facile che compaiano errori legati all’irregolarità del frutto o al fatto che l’operatore non riesce a misurare lo stesso nel punto in cui il suo diametro è massimo. Oppure, più semplicemente si pensi alla misurazione della produzione di granella di una certa varietà di frumento: anche ipotizzando di avere uno strumenti di misura perfetto e quindi esente da errore, la produzione mostrerebbe comunque una fluttuazione naturale da pianta a pianta, in base al patrimonio genetico e, soprattutto, in base alle condizioni di coltivazione che non possono essere standardizzate oltre ad un certo livello (si pensi alla variabilità del terreno agrario).

Dato che queste imprecisioni sono assolutamente casuali è chiaro che le fluttuazioni positive (misura maggiore di quella vera) sono altrettanto probabili di quelle negative e tendono a presentarsi con la stessa frequenza quando si ripetano le misure più volte. Di conseguenza, l’errore sperimentale casuale può essere gestito attraverso la replicazione delle misure: infatti, se ripeto una misura soggetta a questo tipo di errore, nel lungo periodo gli errori positivi e negativi tendono ad annullarsi reciprocamente e la media delle misure effettuate tende quindi a coincidero con il valore reale della grandezza da misurare.

Il campionamento

Se è vero, e la pratica sperimentale lo conferma, che ripetere le misure porta ad ottenere molti risultati diversi, nasce il problema di capire quante repliche sono necessarie. Se si ripensa a quanto detto finora, dovrebbe risultare evidente che, per ottenere una misura pari all’effettivo (reale) valore della grandezza da misurare, bisognerebbe effettuarne infinite. Tuttavia è altrettanto evidente che questo procedimento è totalmente improponibile!!!

Qual è la strada seguita dagli scenziati, quindi? E’ quella di raccogliere un numero finito di misure, sufficientemente basso da essere compatibile con le umane risorse di tempo e denaro, ma sufficientemente alto da essere giudicato attendibile. Qualunque sia questo valore finito, è evidente che ci troviamo difronte solo ad un campione delle infinite misure che avremmo dovuto fare, ma che non abbiamo fatto. La domanda è: questo campione è rappresentativo o no? E’ in grado di descrivere adeguatamente la realtà? E’ possibile che gli errori sperimentali positivi e negativi non si siano annullati tra loro, confondendosi con l’effetto biologico in studio? In altre parole: possiamo fidarci dei dati che abbiamo raccolto?

La domanda è difficile, perché per quanti sforzi possiamo aver fatto, non è possibile annullare completamente ogni fonte di incertezza; se non altro, rimane comunque il dubbio che se facessimo altre misure (cioè ampliassimo il campione) queste potrebbero invalidare i risultati ottenuti fino a quel momento. Se mi è concesso un paragone calcistico, è un po’ come chiedersi come finirà una partita di calcio dopo aver assistito solo al primo tempo: in alcune circostanze, quando una delle due squadre ha mostrato una chiara superiorità, la previsione è abbastanza facile, mentre in altre circostanze l’equivalenza dei valori in campo la rende alquanto difficile. In tutti i casi, si tratta solo di una previsione, che può essere sempre smentita alla prova dei fatti.

Il fatto che un risultato scientifico possa essere smentito dai fatti è tutt’altro che eccezionale. Gli scienziati american Pons e Fleischmann il 23 Marzo del 1989 diffusero pubblicamente la notizia di essere riusciti a riprodurre la fusione nucleare fredda, causando elevatissimo interesse nella comunità scientifica. Purtroppo le loro misure erano vizite da una serie di problemi e il loro risultato fu clamorosamente smentito da esperimenti successivi.

Conseguenze di un esperimento sbagliato
Conseguenze di un esperimento sbagliato

Scienza = metodo

Insomma, la scienza deve essere basata sui dati, ma i dati contengono inevitabili fonti di incertezza, legate all’errore sperimentale e al processo di campionamento. Come si può procedere in queste condizioni? Il punto fondamentale è quello di adottare un metodo sperimentale che consenta di isolare i dati sufficientemente affidabili e utilizzarli a supporto di teorie scientifiche valide fino alla raccolta di dati altrettanto affidabili che le confutino.

Almeno in ambito biologico, la definizione del metodo sperimentale è fondamentalmente attribuita allo scienziato inglese Ronald Fisher (1890–1962), che l’ha esplicitata nel suo famoso testo del 1935 (The design of experiments). Mi sembra opportuno riassumerla nelle tre espressioni ‘chiave’: controllo locale degli errori, replicazione e randomizzazione. Si tratta di:

  1. contenere al massimo possibile l’errore sperimentale, con l’adozione di tecniche opportune (controllo locale degli errori);
  2. replicare le misure più volte (replicazione)
  3. Scegliere le unità sperimentali da misurare in modo totalmente casuale, così da avere un campione rappresentativo ed evitare di confondere gli effetti prodotti dall’errore sperimentale con quelli prodotti dal fenomeno biologico oggetto di studio (randomizzazione)

In questo modo si può arrivare a risultati il più attendibili, anche se comunque incerti. A questo punto si dovrà procedere secondo le seguenti linee:

  1. in primo luogo si dovrà accettare il fatto che, contrariamente a quanto si potrebbe o vorrebbe credere, non esistono prove scientifiche totalmente certe, ma l’incertezza è un elemento intrinseco della scienza.
  2. In secondo luogo si dovranno utilizzare gli strumenti della statistica necessari per quantificare l’incertezza residua, che dovrà essere sempre riportata a corredo dei risultati di ogni esperimento scientifico.
  3. Ogni risultato sarà quindi valutato dalla comunità scientifica sullo sfondo della sua incertezza, seguendo alcune regole di natura probabilistica che consentono di stabilire se la prova scientifica è sufficientemente forte per essere considerata tale.

Un elemento fondamentale di valutazione sta nella replicabilità di un esperimento. In sintesi, ogni esperimento deve essere descritto con un grado di dettaglio tale da permettere a chinque di ripeterlo, ottenendo risultati comparabili e non contraddittori. Nessun risultato di cui non sia provata la riproducibilità è da considerarsi valido.

Peer review

Quanto detto finora vorrebbe chiarire come il punto centrale della scienza non è la certezza delle teorie, bensì il metodo che viene utilizzato per definirle. Ognuno di noi è quindi responsabile di verificare che le informazioni in suo possesso siano ‘scientificamente’ attendibili, cioè ottenute con un metodo sperimentale adeguato. Il fatto è che non sempre siamo in grado di compiere questa verifica, perché non abbiamo strumenti ‘culturali’ adeguati, se non nel ristretto ambito delle nostre competenze professionali. Come fare allora?

L’unica risposta accettabile è quella di controllare l’attendibilità delle fonti di informazione. In ambito biologico, le riviste autorevoli sono caratterizzate dal procedimento di ‘peer review’, nel quale i manoscritti scientifici, prima della pubblicazione, sono sottoposti ad un comitato editoriale ed assegnati ad un ‘editor’, il quale legge il lavoro e contemporaneamente lo invia a due o tre scienziati anonimi e particolarmente competenti in quello specifico settore scientifico (reviewers o revisori).

I revisori, insieme all‘editor, compiono un attento lavoro di esame e stabiliscono se l’evidenza scientifica presentata è sufficientemente ‘forte’. Le eventuali critiche vengono presentate all’autore, che è tenuto a rispondere in modo convincente, anche ripetendo gli esperimenti se necessario. Il processo richiede spesso interi mesi ed è abbastanza impegnativo per uno scenziato. E’ piuttosto significativa l’immagine presentata in scienceBlog.com, che allego qui.

Il processo di peer review
Il processo di peer review

In sostanza il meccanismo di peer review è l’analogo scientifico di un processo, nel quale l’inputato (lavoro scientifico) viene assolto (rilasciato, leggi: rigettato) in presenza di qualunque ragionevole dubbio metodologico. Attenzione: il dubbio che non deve esistere è quello metodologico, dato che il dubbio sul risultato non può essere allontanato completamente e i reviewer controlleranno solo che esso si trovi al disotto della soglia massima, stabilita con metodiche statistiche.

Questo procedimento, se effettuato con competenza, dovrebbe aiutare a separare la scienza dalla pseudo-scienza e, comunque, ad eliminare la gran parte degli errori metodologici dai lavori scientifici.

In conclusione, possiamo ripartire dalla domanda iniziale: “Che cosa è la scienza?”, per rispondere che è scienza tutto ciò che è supportato da dati che abbiano passato il vaglio della peer review, dimostrando di essere stati ottenuti con un procedimento sperimentale privo di vizi metodologici e di essere sufficientemente affidabili in confronto alle fonti di incertezza cui sono associati.

Qual è il take-home message di questo articolo? Fidatevi solo delle riviste scientifiche attendibili, cioè quelle che adottano un serio processo di peer review prima della pubblicazione.